Karen Elson – Double Roses

Karen Elson – Double Roses
- Voto: 80 su 100
- Anno: 2010
- Genere: Indie pop, Cantautorato
- Influenze principali: Chamber pop, Blues, Dark cabaret



A cura di Alessandro Narciso

Spoiler: quello di Karen Elson non è stato un fuoco di paglia. A sette anni dall’ottimo The Ghost Who Walks, la cantautrice inglese torna con Double Roses, pronta a consolidare una carriera musicale del tutto indipendente dal nome dell’ormai ex marito, Jack White. Registrato agli United Studios di Los Angeles con un nuovo team di collaboratori tra cui Laura Mailing, Father John MistyPat Carney (The Black Keys) e il produttore Jonathan Wilson, Double Roses è interamente scritto da Karen (ad eccezione di una canzone co-scritta) e mette finalmente a tacere i pregiudizi che circondano una top model che ha qualcosa da dire con la musica e le voci maligne secondo cui ci fosse riuscita solo grazie al nome importante che aveva alle spalle.

E non solo Karen ha ribadito le sue doti di cantautrice, ma è riuscita anche a dimostrarsi versatile e rinnovare il proprio sound. Stilisticamente, Double Roses è molto più morbido del predecessore: la parte rock e la teatralità sono sparite per lasciare il posto a un pop romantico, intimo, per lo più acustico, i cui arrangiamenti però regalano un’esperienza d’ascolto altrettanto coinvolgente. Così come su The Ghost Who Walks il filo conduttore era affidato all’organetto, una presenza quasi costante su Double Roses sono l’arpa e gli archi, che impreziosiscono anche gli episodi più convenzionali, come le ballate pop “Call Your Name”, “The End” e il singolo “Distant Shore”, quest’ultimo abbellito ulteriormente dalle backing vocals di Laura Marling.
Ed è proprio la ballata, declinata in tutte le sue sfumature, la forma musicale prevalente sul disco. È il romantico sei ottavi di “Wonder Blind” a introdurre il disco, stabilendo le sonorità prevalenti con l’arpa e i magnifici flauti del bridge, ma richiamando un po’ i territori familiari con un accenno di organetto e una discretissima chitarra elettrica sullo sfondo. “Double Roses”, la title track, è una canzone solare a cui la chitarra acustica dà un sapore pop; la sua apparente convenzionalità è però sfidata da come Karen gioca con la struttura strofa-ritornello, senza mai cedervi completamente, ed è spezzata dal bellissimo bridge di clavicembalo, per poi sfumare in un recital soffuso della poesia “Double Roses” di Sam Shepard, che ha ispirato il titolo dell’album. Le influenze del country, che ha sempre affascinato Karen, sono ben evidenti in “A Million Stars”, una canzone schietta per pianoforte e chitarra ma abbellita dai cori di sottofondo.
Questo non significa, però, che Karen non voglia guardare al passato o addirittura rischiare un po’: “Why Am I Waiting”, ad esempio, è un momento piuttosto sperimentale dominato da una melodia orientale suonata su un cordofono tradizionale; sulle prime può sembrare spiazzante, ma è impossibile non lasciarsi travolgere dal crescendo di archi sul finale. I nostalgici del primo disco saranno soddisfatti dal sapore cabarettistico di canzoni come “Hell Or High Water” o “Raven”: la prima, co-scritta con Mark Watrous dei Gosling e il collaboratore di vecchia data Jackson Smith, gioca con un ritmo incalzante e le note basse di un capriccioso pianoforte con qualche accenno di arpa e archi, e si concede assolo di chitarra elettrica sul bridge per finire con bei fraseggi di chitarra acustica. La seconda mescola clavicembalo, bellissimi violini e organetto in un romantico sei ottavi su una melodia che riporta un po’ il feel goticheggiante da “murder ballad”. Menzione speciale, infine, per la bellissima “Wolf”, un emozionante blues per pianoforte sul cui finale un magnifico assolo di sassofono sostenuto dall’organetto dà veramente i brividi – una delle highlight del disco.

Vocalmente, Karen è in splendida forma e si muove con destrezza ed emozione su linee vocali che accentuano la morbidezza della sua voce. Anche a livello testuale, la teatralità del debutto è stata notevolmente stemperata per lasciar posto a confessioni e riflessioni intime sull’amore, sulla sua evoluzione e fine, sulla delusione e la vulnerabilità che può portare così come sulla speranza che non riesce a far sparire. Non è difficile scorgere qualche traccia del divorzio a tratti burrascoso da Jack White, ma non si tratta di un “break-up album” vero e proprio: il tono generale, sebbene a tratti malinconico, è piuttosto positivo e sereno, una sensazione accentuata dalle melodie solari e dagli arrangiamenti ariosi. Ed è proprio l’insieme di testi e aspetto musicale che dà all’album una notevole coesione è lo rende un’esperienza d’ascolto solida e interessante.

In conclusione, Karen Elson ha fornito un’ottima prova musicale che conferma le sue doti, dimostra versatilità e capacità di rinnovarsi, e la libera da dubbi e pregiudizi residui. Non resta che sperare di non dover attendere altri sette anni per sentire dove la sua evoluzione stilistica ci porterà la prossima volta.