The Romanovs – ...And the Moon Was Hungry...

The Romanovs – …And The Moon Was Hungry…
- Voto: 90 su 100
- Anno: 2007
- Genere: Baroque pop
- Influenze principali: Dark cabaret, Musica colta, Musica elettronica, Soft rock



A cura di Alessandro Narciso

I The Romanovs come ensemble vero e proprio hanno all’attivo un unico album, ...And The Moon Was Hungry... del 2007, ma la loro storia è un po’ complicata e inizia molto prima.
Frutto della creatività della cantante e polistrumentista statunitense Morgan Kibby, il progetto debutta sotto il moniker Morgan Grace nel 2003, anno di pubblicazione dell’EP Beggar’s Alchemy, in cui Morgan canta e suona pianoforte e violoncello. Prosegue con la prima versione di ...And The Moon Was Hungry... nel 2005 sotto il nome Morgan and the Hidden Hands, un approccio già più band- oriented. Nella pratica, le tre pubblicazioni sono per lo più assimilabili fra loro: ...And The Moon Was Hungry... 1.0 è un ampliamento di Beggar’s Alchemy, con le stesse sette canzoni e l’aggiunta di quattro nuove tracce (cinque se contiamo la hidden track). La versione del 2007 è principalmente un remaster, con tre canzoni sottratte (“La Mer Enchantée”, “I Shot The Monster” e “Sonnet” + hidden track) e due aggiunte; la maggior parte degli altri brani sono invece riarrangiati, alcuni con differenze nei testi e nelle linee vocali, ma principalmente ampliando la parte strumentale col contributo della band.
Per evitare confusione, qui si parla della versione 2007 di ...And The Moon Was Hungry..., considerata quella definitiva nonché il picco stilistico e creativo dei The Romanovs prima che Morgan si dedicasse ad altri progetti.

Il genere proposto è un chamber pop di altissimo livello, dominato strumentalmente da pianoforte, violini e violoncello, ma spesso condito con altri elementi, formando così un lussureggiante sfondo per la voce avvolgente di Morgan e le sue polifonie. Alla ricercatezza degli arrangiamenti corrispondono melodie accattivanti, mai banali ma nemmeno astruse, e ritmi spesso vivaci.
Fever Pitch”, uno dei due inediti del disco, ne è un perfetto esempio: sostenuta dal pianoforte e arricchita da interessanti fraseggi di violino, la sua melodia cabarettistica è condotta magistralmente dalla voce di Morgan e vivacizzata da un buon uso della batteria (la sessione ritmica più prominente è il vero punto di svolta rispetto al passato, e l’album nel complesso ci guadagna). Sul bridge, gli strumenti si concedono una profusione di virtuosismi che, però, corrispondendo al crescendo emotivo del brano, non sembrano fuori posto o autocelebrativi: è un ottimo esempio di come la tecnica dei musicisti sia funzionale alla struttura dei brani, e non vice versa.
Su “Nice Day” prevalgono invece clavicembalo e archi, mentre un occasionale filtro “vinile” e l’uso del ticchettio di un orologio per arricchire la sessione ritmica danno un tocco di creatività in più. E come non menzionare la bellissima “Kiss”, uno dei momenti più barocchi e tecnicamente interessanti? La melodia dal sapore dark cabaret lascia spazio a bellissimi fraseggi di violini e violoncello, e combina perfettamente la struttura strofa-ritornello-bridge con quella in tre movimenti: il primo dal sapore più pop, il secondo che diventa una danza zingaresca in crescendo e accelerando, che lascia spazio a virtuosismi di violino e ai vocalizzi di Morgan, il terzo che riprende il tema principale e lo conclude in bellezza.

Questo paradigma non è tuttavia rigido e l’album condisce spesso il genere di base con altri elementi: ad esempio, “Olden Times” si apre come un brano lento all’arpa, ma sfocia presto nel soft rock che si fa dominare da una discreta chitarra elettrica con qualche sprazzo di synth. Anche la magnifica “White Flag”, che inizia come un lento tre quarti dominato dagli archi, alterna qualche sprazzo di chitarra elettrica a una bella presenza di sintetizzatore per aggiungere varietà. La stessa commistione di rock ed elettronica aggiunge un tocco di contrasto al classicismo di “Four Things”, richiamato stavolta dalla prevalenza del pianoforte, mentre l’emozionante “Exit Wounds” fa un ottimo uso del solo synth per dare l’accento alla magnifica sessione d’archi.
Non mancano canzoni che si distaccano del tutto dalla formula neoclassica: “King”, ad esempio, è trainata da un sensuale beat elettronico e un ottimo soft rock, e sono stavolta gli elementi classici a fare da decorazione. “China Shop” dà invece tocco lounge al disco con il contrabbasso pizzicato, il pianoforte, le stratificazioni vocali di Morgan, e si ricongiunge all’anima neoclassica grazie al magnifico violoncello del bridge. E poi c’è la fantastica “Mr. Okada”, l’altro inedito: un bellissimo, prominente pianoforte e gli archi virtuosi danno un sapore classicamente occidentale a una melodia dagli accordi spiccatamente orientali che, come “Kiss”, combina la struttura strofa-ritornello con quella in tre movimenti – e il secondo, con il suo stringendo, gli archi pizzicati e l’emozionantissima performance vocale è una vera perla.

È impossibile parlare di un lavoro di Morgan Kibby senza approfondire due altri aspetti molto interessanti della sua musica: la sua voce e i testi. La performance vocale su ...And The Moon Was Hungry... è magistrale e Morgan riesce a giostrare il suo timbro inconfondibile per renderlo ora dolce, ora sensuale, ora pungente, ora malinconico, con notevoli picchi espressivi nel misto di sarcasmo e frustrazione di “Kiss” e… be', “Mr. Okada” lascia semplicemente senza fiato.
A livello testuale, il tema portante è il desiderio sessuale: una vastissima fetta della musica contemporanea ci dimostra quanto sia facile banalizzarlo, ma Morgan ne parla ora con schiettezza, ora con metafore raffinate, esplorandone le varie sfumature. In “King” c’è l’arte della seduzione, in “Nice Day” e “Fever Pitch” la solitudine colmata con l’avventura di una notte. L’attrazione in “Exit Wounds” e “Olden Times” è talmente forte da essere distruttiva e sadica, mentre in “White Flag” trascende perfino i limiti della vita presente e continua da quelle passate verso quelle future. “China Shop” parla del conforto che si può trovare nella prostituzione, mentre “Four Things” cerca di vincere le resistenze del partner. E posso garantire che “Kiss”, con tutta la frustrazione di una tensione sessuale mai risolta, diventerà la vostra nuova canzone preferita da spammare quando vi friendzonano. L’eccezione a tutto ciò è “Mr. Okada”, che racconta di un rapporto completamente diverso: quello fra lettore e personaggio letterario, con una descrizione magistrale di quanto sia facile ed emozionante lasciarsi risucchiare completamente dal mondo del libro che si sta leggendo.

In definitiva, quindi, i The Romanovs hanno regalato al pubblico un album di grande interesse in cui c’è tutto: ottime melodie, arrangiamenti impeccabile, voce incredibile e testi intelligenti. ...And The Moon Was Hungry... è capace di affascinare l’ascoltatore più esigente con le sue suggestioni classicheggianti, ma intrattenere quello di minori pretese con la sua accessibilità. È un peccato che non ci sia stato un seguito, ma non temete: Morgan Kibby ha continuato a deliziarci con la sua creatività sotto l’alias White Sea, che andremo a esplorare nelle prossime recensioni.