Eivør – Slør

Eivør – Slør
- Voto: 89 su 100
- Anno: 2015 / 2017
- Genere: Synth Pop, Folktronica
- Influenze principali: Art Pop




A cura di Alessandro Narciso

Parlare di Slør non è facilissimo. Tanto per cominciare, quale versione scegliere? L’originale, interamente cantata in faroese, la lingua madre di Eivør, risalente alla fine del 2015? O quella inglese, uscita a giugno 2017? Ad eccezione dell’arrangiamento della title track e di due bonus track nella versione inglese (registrazioni live di “Falling Free” e “On My Way To Somewhere”, rispettivamente da Room del 2012 e Bridges del 2015), le differenze musicali sono minime: andrebbero considerati a tutti gli effetti lo stesso album.
Eppure, come già successo nel 2007 con Mannabarn e la sua controparte Human Child, le canzoni di Eivør assumono sfumature diverse a seconda della lingua in cui sono cantate. In parte è per via della dizione che, per forza di cose, rende almeno un po’ diversa l’emissione vocale, proprio a livello fisico. In parte è, probabilmente, la connessione che Eivør sente con i testi nelle due lingue, che crea delle differenze nell’interpretazione. E in parte è tutto nella mente dell’ascoltatore: in alcune canzoni, la barriera linguistica del faroese permette di concentrarsi di più sulle melodie e apprezzarne appieno il mood; in altre, capire chiaramente i testi amplifica l’impatto emotivo.
Per ragioni di praticità, le due versioni saranno recensite insieme, ma ciascuna merita un ascolto slegato dall’altra perché, semplicemente, sono due esperienze d’ascolto diverse.

Fatta questa premessa, Slør è uscito a sorpresa nel tardo 2015, pochi mesi dopo Bridges. È un album nato, nelle parole della stessa Eivør, come riflesso del precedente: le composizioni acustiche e pop-oriented di Bridges si lasciavano dietro un alone di idee più sperimentali che si sono concretizzate nei nove inediti che compongono il disco. Il pop-folk solare ma dal gusto europeo di Bridges ha trovato la perfetta controparte nell’elettronica oscura ma profondamente faroese di Slør: sono due opposti complementari.
Ciò non significa, però, che Slør sia un lavoro che dipende dal precedente: ognuna delle canzoni è una composizione del tutto nuova, non una rivisitazione dei brani di Bridges (come, ad esempio, i due Beloe dei Theodor Bastard o Disclosure e Afterwords dei The Gathering), tant’è che, anche dopo due anni, è perfettamente proponibile come disco a sé stante in versione tradotta per il pubblico internazionale.

Così come Bridges incorpora elementi elettronici in un songwriting per lo più acustico, Slør affianca strumenti acustici alla predominanza elettronica con un ottimo uso di tracce vocali stratificate e perfino rumori ambientali. La parte strumentale, così, risulta ricca e stratificata nonostante il songwriting si mantenga piuttosto minimalista, spesso composto da due, massimo tre elementi principali, dando un senso di essenzialità e grande cura dei dettagli.
A suo tempo, “Verð Mín” (“My World” in versione inglese) fu la prima canzone rivelata da Slør: con la sua bella melodia pop, il mood solare, la chitarra acustica affiancata al beat e agli archi si pone proprio come ponte (ironia involontaria) fra il sound di Bridges e quello di Slør, che introduce con un bell’uso di sintetizzatore per tutto il brano. Lo stesso piglio pop è presente anche nell’ottima “Silvitni” (“calma assoluta”), o “Surrender”, l’opener dell’album, la cui melodia orecchiabile è condotta da un riff di clavicembalo sintetico e un bel beat in loop.
Brotin” / “Broken” è una canzone molto interessante perché il mood ballabile e quasi robotico è dato, in realtà, dal semplice tamburo a mano usato come beat e dalla chitarra che sembra quasi un loop: il giro di synth che accompagna il ritornello è solo un’aggiunta, ma è l’uso intelligente degli strumenti acustici a dare quella sensazione così synthpop. Una trovata davvero intelligente! Anche il beat di “Salt” è costituito dal tamburo a mano, ma stavolta le stratificazioni sono del tutto elettroniche: la melodia è affidata principalmente alla voce mentre i synth, il sample filtrato di un canto religioso e i vari rumori industriali sono quasi pulsazioni atone che sottolineano il ritmo della canzone.
Il modo magistrale che ha Eivør di coniugare sound diversi nello stesso lavoro è esemplificato bene dalle due ballate: “Petti Fyri Petti” / “Piece By Piece” è un brano minimale e intimo per sola voce e ukulele con giusto un accenno di coro e archi in sottofondo, mentre “Mjørkaflókar” / “Fog Banks” sostiene il cantato con un bel sintetizzatore, backing vocals maschili e una sessione ritmica languida.
Røttu Skógvarnir” / “In My Shoes” ha una bella melodia folk sottolineata dalla chitarra nelle strofe; l’uso dell’elettronica nei ritornelli accompagna bene il ritmo vivace e dà un bel contrasto con la progressione di accordi. È molto intelligente l’idea di arricchire la sessione ritmica con rumori di passi e tacchi di scarpe battuti per ricollegarsi alla metafora del titolo. Il sapore folk predomina anche nella magnifica e dark “Í Tokuni” / “Into The Mist”: è una canzone ispirata da un’esperienza che Eivør ebbe perdendosi nella nebbia da bambina e trasmette quel senso di smarrimento con una melodia pungente dal costante crescendo strumentale. Col progredire della canzone, i livelli si mescolano: il ritmo viene scandito da sussurro gutturale a cui si unisce il beat, le tracce vocali si sovrappongono e offrono qualche dissonanza, i sintetizzatori alternano accordi a note sincopate in una corsa fino alla risoluzione finale.
Slør” (“velo”), la title track, è l’unica canzone che differisce in maniera sostanziale fra la versione faroese e quella inglese. Eivør ammette di averne registrate diverse versioni aggiungendo e sottraendo elementi, aumentando o diminuendo la sessione ritmica, mescolando acustico ed elettronico in cerca del mood perfetto: la versione faroese è molto downtempo, con giusto un accenno di beat dalla seconda strofa e una parte strumentale ambient affidata a sintetizzatori riverberati, mentre quella inglese ha un beat più prominente e, nella seconda parte, ha un accenno di chitarra che si aggiunge ai synth.
Escludendo le bonus track live della versione inglese, a concludere il disco è una vecchia conoscenza, “Trøllabundin”. Nata su Eivør (2004) come canzone per chitarra e voce, si è evoluta dal vivo nei dieci anni successivi ed è stata riproposta qui in versione sperimentale: la prima parte è a cappella su un ritmo costante al tamburo, ma presto ha un accenno di synth in sottofondo a cui si unisce un cantato di gola che funge da beat box.

Il titolo dell’album significa “velo” ed è stato scelto perché unisce un po’ tutti i temi trattati: può essere il velo della nebbia, metaforica come nel caso della perdita di memoria (“Fog Banks”) o letterale come nell’esperienza di “Into The Mist”, ma anche un velo interiore da squarciare per trovare un’identità propria e un posto nel mondo (“In My Shoes” e “Broken”, quest’ultima ispirata dalle esperienze degli amici LGBT di Eivør nell’adattarsi alla piccola comunità delle Fær Øer), la forza (“Salt”, espressa con la metafora della potenza dell’oceano), o la chiarezza nei sentimenti (“Surrender”, “My World”, “Piece By Piece”). Basandomi su una molto limitata comprensione del faroese, le traduzioni in inglese di Randi Ward rendono giustizia agli originali ma tengono sempre d’occhio la metrica musicale: canzoni come “Surrender”, “My World” e “Into The Mist” divergono maggiormente da “Silvitni”, “Verð Mín” e “Í Tokuni”, pur mantenendo intatto il tema e il messaggio generale, mentre altre, come “Broken”, “Salt” e “Piece By Piece” riescono a unire una straordinaria aderenza al testo originale senza sacrificare la metrica. Si tratta di un ottimo lavoro in entrambi i casi.

Slør, quindi, non è solo il gemello dark di Bridges, ma in tutto e per tutto un album a sé stante, nonché uno dei migliori di Eivør. Ancora una volta, la cantautrice si dimostra capace di attingere a varie fonti per creare un sound personale e inconfondibile, dando un’interpretazione peculiare a più di un genere. La scelta di riproporre un lavoro di tale qualità in lingua inglese è vincente, e non solo perché ha tutte le carte in regola per conquistare una nuova fetta di pubblico: anche i fan più incalliti possono trovare molto in entrambe le versioni. Ascoltarne una conoscendo bene l’altra è un’esperienza molto interessante perché è come riscoprire nove ottime canzoni daccapo, ma per la seconda volta. E anche se si sceglie di ascoltarne una sola, si ha la certezza di ascoltare musica di alta qualità e incredibilmente emozionante.