L’inganno dell’industria musicale

A cura di Michele Greco

Molti siti a tema musicale, soprattutto in ambito pop, tendono a dare enorme rilevanza alle classifiche di vendita, mentre noi di Armonie Universali non ne parliamo mai neppure sulla nostra pagina. La motivazione è presto detta: le vendite sono un affare che riguarda i commercialisti dei musicisti e dei discografici, non gli ascoltatori. Anzi, dirò di più: ritengo altamente diseducativo focalizzare l'attenzione sulle vendite e sulle classifiche, giacché contribuisce a diffondere l'idea che la qualità sia subordinata al successo o che le due cose siano dipendenti tra loro. Idee, queste, che per essere sradicate necessitano di essere capite, sicché nelle prossime righe ho intenzione di analizzarne brevemente l'origine e l'evoluzione, in modo da capire come abbia fatto l'industria musicale a trasformare gli ascoltatori in ostaggi in preda alla Sindrome di Stoccolma.


Lo spirito del capitalismo
Tra il 1904 e il 1905 Max Weber pubblica "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo". Nel testo, il sociologo teorizza che l'economia di mercato abbia la sua origine nel protestantesimo. Questo, già nelle tesi di Lutero, prevedeva la dottrina della giustificazione per fede: gli uomini possono essere salvati a insindacabile giudizio divino, che così predestina alla beatitudine o alla dannazione eterna. Le opere buone diventano quindi superflue, ciò che importa è solo la fede; questa è una condizione necessaria, ma non sufficiente, giacché altrimenti verrebbero limitate l'onnipotenza e la trascendenza divina. Ciò porta il fedele a cadere nel baratro del dubbio, sul cui fondo però non trova il fatalismo e la disperazione, bensì il desiderio di una prova tangibile della grazia. Per Calvino, questa prova è la ricchezza generata dal lavoro e quindi da un'"ascesi mondana".
Col tempo, questa mentalità è entrata far parte della cultura laica, trasformandosi nell'equazione fra successo e merito: se hai successo, è perché devi averlo; se invece fatichi, è perché non meriti di arrivare in cima. Fortuna e sfortuna non esistono, le condizione avverse sono giustificate in quanto il povero è tale per colpa sua, dei suoi peccati o delle sue negligenze. 

Una questione geografica
Durante la Guerra Fredda, lo scontro culturale con lo statalismo sovietico ha amplificato lo "spirito del capitalismo" attraverso il maccartismo statunitense, che ha a sua volta archiviato l'idea di welfare State e il ricordo della "Second Bill of Rights" di Roosevelt. Nello stesso periodo, continuava il tentativo degli USA di influenzare l'Europa in funzione anti-sovietica: se economicamente il Piano Marshall si era concluso nel 1951, da un punto di vista socio-culturale non ha mai avuto fine. Neanche lo sviluppo della Comunità Europea prima e dell'Unione Europea dopo ha ostacolato l'imperialismo culturale nordamericano. Inoltre, con l'avanzata del centrismo blairista nelle socialdemocrazie europee, anche le storiche roccaforti del welfare hanno iniziato gradualmente a cedere alla malsana idea per cui il successo e l'insuccesso siano sempre meritati e il supporto statale non sia meritocratico. In ambito artistico mainstream, questo è il motivo per cui tutt'ora fatichiamo a valorizzare i nostri talenti e la nostra identità. Ciò è a maggior ragione vero se si considera che l'influenza degli USA e, più in generale, dei Paesi Anglosassoni, non si limita a impostare degli standard da imitare, ma rende anche più o meno facile emergere a seconda del Paese in cui si vive. Se Madonna fosse stata lituana o polacca e avesse proposto le stesse canzoni che conosciamo, avrebbe ottenuto lo stesso successo?
Alcuni Paesi offrono opportunità maggiori non solo da un punto di vista economico, ma anche per quanto riguarda la visibilità internazionale. Ciò però non rende la musica norvegese e quella islandese intrinsecamente inferiori a quella statunitense e a quella inglese, quindi l'equazione fra successo e merito scricchiola.
Ho volutamente citato Paesi che possono comunque offrire buone opportunità economiche e l'accesso a un mercato ampio, quello europeo. Considerando invece i Paesi che hanno subito processi di colonizzazione, la questione si fa ancora più complicata.

Il boom del mercato discografico
Facciamo un passo indietro, verso il periodo compreso fra gli Anni '60 e gli Anni '80. Si tratta di quella che molti considerano un'Epoca d'Oro, quella che fa dire "ah, non c'è più la bella musica di una volta". Questo senso di nostalgia è tipico della psiche umana, che tende a vedere il passato indossando degli "occhiali rosa"; ci sono però anche delle motivazioni tecnologiche e logistiche.
Innanzitutto, all'epoca non esisteva internet, quindi gli artisti indipendenti avevano molte più difficoltà nel finanziarsi (non esistendo Patreon) e promuoversi (non esistendo i social  network e le webzine indipendenti). Senza la musica digitale, inoltre, era molto difficile raggiungere il pubblico: ai negozianti non conveniva ordinare dischi di artisti sconosciuti, in quanto sarebbero rimasti a fare la polvere sugli scaffali; i negozi fisici di cd, quindi, tendevano a favorire gli artisti più redditizzi. Lo stesso valeva per le radio, anche considerando che in quegli anni i discografici investivano molti soldi per pagare le emittenti e influenzarne la programmazione; è una pratica, la "payola", in teoria illegale, ma la sua ampia diffusione era ed è tutt'ora un Segreto di Pulcinella. I suoi effetti distorsivi sui gusti del pubblico potrebbero inoltre essere più gravi di quanto si pensa: una ricerca del 2011 basata sulla risonanza magnetica funzionale ha mostrato che i centri emotivi del cervello umano, ivi compresi quelli legati alla felicità, si attivano più facilmente ascoltando una canzone che già si conosce e che si odia rispetto a una nuovissima ma più in linea con i propri gusti. Alla luce di ciò, la payola, tutt'ora diffusa, sembra funzionale a un "lavaggio del cervello".

Tra gli Anni '60 e gli Anni '80, però, capitava anche che si sviluppassero a livello locale dei fenomeni di costume distanti dal mainstream, ma i discografici, fiutando l'odore dei soldi, ne approfittavano per creare a tavolino delle mode, delle "ondate" facilmente replicabili ovunque. Nondimeno, all'epoca la musica pagava e quindi le case discografiche potevano permettersi di rischiare promuovendo un po' di musica innovativa o poco "easy listening": è il motivo per cui sono riusciti a emergere vari artisti di altissimo livello. Considerando inoltre i mezzi di diffusione della musica, ossia i dischi fisici e le radio, è normale che siano giunti fino a noi solo i più fulgidi esempi di successo, che a loro volta vengono visti come sempre e solo di qualità per via del falso luogo comune degli "Anni d'Oro" della musica. Ovviamente alcuni hanno prodotto davvero musica eccelsa, ma altri attualmente vengono ampiamente sopravvalutati per via del "filtro di bellezza" dato dallo scorrere del tempo.

Dal potenziamento del divismo all'avvento dei social
Lo strapotere televisivo degli Anni '90 fu il momento adatto per creare sempre più marionette sforna-soldi: è l'epoca delle boyband, come i Backstreet Boys e gli NSYNC, e delle girlband, come le Spice Girls, nonché quella in cui il divismo si impadronisce definitivamente dell'industria musicale.
Già nei decenni precedenti vi erano stati parecchi gruppi e cantanti oggetto di divismo, ma al "feticcio sessuale" derivato dalla popolarità si associava anche un culto per la bravura, anche solamente presunta e propagandata, cosa che negli Anni '90 sparisce per lasciare spazio alla sola viralità dei fenomeni culturali mainstream. Il termine iconico è peculiare di questa tendenza, perché cos'è davvero iconico se non ciò che viene spacciato per tale? Anzi, la stessa personalità musicale di una proposta, sebbene talvolta sia reale, molto spesso è solo un'illusione tessuta da produttori e manager. È il caso, ad esempio, di Britney Spears, che anche prima di darsi anima e corpo al playback aveva una voce insignificante e che ha da sempre avuto un ruolo più che marginale nella scrittura dei brani. Ok, era (è?) una brava ballerina, ma è tutto lì il suo successo? Oppure nell'immagine che le è stata cucita addosso attraverso i videoclip e i servizi fotografici, nel modo in cui la "sua" musica è stata usata per martellanti spot pubblicitari, nell'attenzione che le hanno dato le radio, le tv, i giornaletti di gossip e, successivamente, i blogger? Proprio questi ultimi sono diventati fondamentali nel corso dei Nuovi Anni Dieci, creando delle comunità virtuali; esemplari sono, in tal senso, Perez Hilton negli USA e BitchyF in Italia. Successivamente hanno acquistato importanza anche le webzine, basti pensare all'enorme influenza esercitata da Pitchfork e dal suo progetto politico-culturale volto al "conformismo nell'anti-conformismo".

L'avvento dei social media ha poi fornito un megafono a quella che lo sceneggiatore Lajos Egri, ne "L'arte del personaggio", ha chiamato "l'importanza di essere importanti", ossia la necessità di sentirsi un punto di riferimento nella propria comunità e parte di una narrazione. Comunità che a sua volta rappresenta una bolla, e in molti vogliono far parte di quella più alla moda, più cool. Ecco quindi che diventa importante il lavoro dei manager, che devono far sì che la musica dei propri beniamini venga percepita come popolare all'interno delle bolle più adatte, in modo da diventarlo davvero grazie al tipico fenomeno del salto sul carro del vincitore. L'industria musicale ha quindi l'interesse di manovrare i fili dell'opinione pubblica, così da poter decidere arbitrariamente cosa è In e cosa è Out. Ciò è aiutato anche dal funzionamento stesso di siti come Facebook, i cui algoritmi ci rinchiudono nelle nostre bolle mostrandoci per lo più i contenuti più in linea con la nostra visione pregressa del mondo. Ciò che esce dalle bolle lo fa utilizzando certi target molto aggregati (es. una fetta della comunità LGBT) come veicolo per arrivare alle masse più ampie. Naturalmente questo non riesce sempre, soprattutto se applicato a canzoni dal tempismo sbagliato o non abbastanza orecchiabili o dal ritmo poco trascinante.

Il rovescio della medaglia sta nella creazione di una situazione speculare a quella di qualche decennio fa: laddove prima i dischi erano fisici e quindi non c'era letteralmente spazio per tutti, ma in compenso i guadagni erano elevati, adesso la musica è digitale e quindi c'è posto per tutti, ma i guadagni sono vertiginosamente calati. Sicché è diventato difficile far emergere dei nomi dall'affollatissima massa, dalla pletora informe di quelli che ci provano; soprattutto se si desidera una carriera stabile e duratura, non è facile far capire al pubblico le proposte davvero nuove. È molto più facile fare investimenti dal guadagno immediato e sicuro.

La standardizzazione
Fare investimenti sicuri vuol dire anche settare al ribasso le aspettative del pubblico, così da educarlo fin dalla tenera età a non saper distinguere il concime naturale dalla cioccolata. Più gli ascoltatori saranno tormentati dalla brutta musica, più penseranno che quello sia lo stato dell'arte, il giusto livello qualitativo. Così facendo, diventa più difficile apprezzare ciò che esula dalla norma, perché viene arbitrariamente percepito come strano, noioso e fuori moda. Si tratta inoltre di un circolo vizioso, perché i cattivi ascoltatori diventeranno a loro volta cattivi musicisti.
Ci sono ancora discografici davvero appassionati e intenzionati a promuovere la buona musica, ma sono in pochi. Il loro numero si è ridotto sensibilmente con il vertiginoso calo delle vendite, e quindi dei profitti, che ha caratterizzato gli ultimi anni. Cercare artisti validi, aiutarli a maturare e promuoverli in modo che il grande pubblico possa capirli è diventato troppo dispendioso in termini di tempo e soldi, soprattutto per le major, che notoriamente non fanno certo beneficenza. È molto più facile volare basso e puntare sugli investimenti sicuri, soprattutto se inseriti nel contesto di una certa moda in riferimento al genere (pensiamo al boom italiano dell'hip hop e della trap negli ultimi anni) o alla viralizzazione di un singolo brano e di elementi di esso ("Despacito", "Gangnam Style"...). Non è un caso che le classifiche di vendite statunitensi siano dominate da anni da un ristrettissimo gruppo di produttori. 

Fare investimenti sicuri vuol dire anche puntare alla standardizzazione dei contenuti. Ciò riguarda in primis la ghettizzazione dei generi musicali che richiedono alti livelli tecnici, giacché non riproducibili da tutti, nonché di quelli poco radiofonici per durate, tematiche o sperimentazioni, soprattutto negli Stati in cui il sistema scolastico non fornisce gli strumenti per capire certe espressioni musicali. In generale, chiunque rischi di disabituare il pubblico agli standard bassi del mercato è pericoloso e va invisibilizzato: ecco perché perfino premi prestigiosi come i Grammy tendono a escludere tantissimi artisti di qualità, nonché a considerare i generi poco mainstream solo per le categorie secondarie e solo attraverso i musicisti più adatti ai cliché che si vuol diffondere. Sono permesse delle eccezioni, anche all'interno dei mainstream, ma bisogna instillare nelle menti degli ascoltatori la consapevolezza della loro rarità. È inoltre utile nascondere i musicisti interessanti in mezzo a delle imitazioni che vengono spacciate per Artistiche pur non essendolo affatto, cosa molto comune nella musica pseudo-indie.
Terminata questa cernita, possono aspirare alla visibilità mainstream solo pochissimi generi e sottogeneri, ma a loro volta devono essere anch'essi riempiti di richiami, in modo da evocare un continuo senso di familiarità e riconoscibilità; è il caso, ad esempio, del Millenial Whoop.
Per lo stesso motivo, la musica ben vista dall'industria viene mandata in rotazione continua ovunque, persino in sottofondo mentre si fa la spesa, così che in pochissimi possano sfuggire. Per evitare di annoiare, ogni tanto si inseriscono delle variazioni sul tema, quindi qualche album in controtendenza, così da spacciare per coraggiosi dei prodotti che in realtà non lo sono davvero. E se poi questi dovessero avere successo, allora potrebbero essere utilizzati come pretesto per cambiare moda. 

L'anti-cultura dei Talent Show
Per il processo di standardizzazione e contenimento dei costi, sono diventati importanti i talent show. Questi hanno il compito di diffondere l'idea per cui fare musica necessiti solo del talento naturale, mettendo da parte lo studio, l'allenamento e la gavetta; ma il talento non è definibile secondo criteri oggettivi, per cui i giudizi non vanno oltre al "mi sei arrivato" o al "mi hai emozionato", tra l'altro formulati da persone prive di competenze specifiche. Ogni tanto viene scelto qualche giudice competente, ma viene molto limitato dai dettami della produzione; dettami che non riguardano solo i criteri di valutazione, ma anche la scelta dei brani e dell'immaginario trasmesso. L'obiettivo è quello di omologare il più possibile le proposte, settando verso il basso non solo l'asticella dell'originalità, ma anche quella della qualità. Ciò farà spiccare maggiormente i cantanti solamente decenti, che per contrasto con quelli scadenti sembreranno bravissimi, e appiattirà i gusti degli spettatori. Questi ultimi, inoltre, si sentiranno più "naturalmente talentuosi" della maggiorparte dei concorrenti e quindi saranno invogliati a presentarsi a loro volta ai provini o a guardare le puntate per coccolare la propria autostima, ma la presenza di uno o due concorrenti bravi farà sì che la gara venga presa un minimo sul serio. I concorrenti, dal canto loro, verranno schiavizzati attraverso contratti indecenti e schiacciati da un sistema volto solo a fare pubblicità a basso costo al vincitore. Questi verrà usato per un po' dai discografici, ma poi, dopo essere stato spremuto come un limone, verrà gettato via e dovrà cavarsela quasi da solo. Qualcuno riesce a sopravvivere, basti pensare ad Adam Lambert, ma nella stragrande maggioranza dei casi si finisce solo per mortificare il proprio lavoro e perdere il rispetto di se stessi.
C'è chi pensa di poter sfruttare il sistema a proprio vantaggio, ma non è quasi mai possibile; infatti, come le Yavanna hanno spiegato nell'intervista-documentario "Forse il mondo gira intorno a me", chi esce dai talent difficilmente riesce a farsi prendere sul serio. E questo soprattutto perché il programma crea identità artificiali, evitando le sperimentazioni e i generi poco mainstream; così facendo, la vera personalità musicale dell'artista viene sommersa dalle forzature della finzione televisiva, ed è quasi impossibile riuscire a riportarla a galla.
L'"anti-cultura" dei Talent Show è quindi il culmine di un processo in atto da decenni e che ha generato l'idea per cui la musica (e l'arte in senso generale) non sia un settore lavorativo come gli altri e quindi non necessiti di studio e gavetta. 

Nonostante gli standard qualitativi siano stati settati al ribasso, abituando gli ascoltatori al minimo sindacale e spesso neppure, permane il sentore che pagare certi artisti mainstream sia uno spreco di soldi. Ciò spiega come mai, secondo uno studio di Ecorys finanziato dalla Commissione Europea, la pirateria ha avuto un basso impatto sul vertiginoso calo dei profitti degli ultimi anni: chi scarica illegalmente della musica e poi non la acquista per vie legali non vuole spendere soldi per un prodotto che secondo lui non li vale. Se si tratta di un prodotto affidato a intrattenitori e showgirl, inoltre, ha più senso godersi gli spettacoli live, che non dei cd privi di personalità e dai quali non si percepisce un adeguato impegno creativo.

Il tentativo dei discografici di guadagnare il massimo col minimo sforzo si è insomma rivelato un boomerang. Ecco perché negli ultimi anni molte cantanti ultra-commerciali hanno subito delle svolte artistiche: si è reso necessario provare a convincere che non siano solamente ragazze-immagine.
Al bivio
Alla luce di tutto ciò, chi possiede un blog, un canale YouTube o una webzine amatoriale ha di fronte a sé un bivio: può contribuire ad alimentare la cultura dominante, oppure può cercare, nel suo piccolo, di infrangerla. Intraprendere quest'ultima strada vuol dire tornare a parlare di musica in sé e per sé, mettendo da parte il successo e le vendite per guardare solo alla qualità, mettendo da parte le barriere culturali per approfondire più generi e stimolare i lettori/spettatori ad aprire la mente. Ciò non deve condurre a un "conformismo nell'anti-conformismo", e quindi alla svalutazione di tutto ciò che ha successo, bensì a una riflessione focalizzata sui contenuti specifici. L'obiettivo dovrebbe essere quello di promuovere chi pensiamo lo meriti davvero, al netto di elementi fortuiti come la nazione di provenienza, il supporto di una major discografica e l'attenzione dei media; questo perché talvolta il successo e l'insuccesso sono meritati, ma talvolta non lo sono. Grazie a internet, possiamo svincolarci dalle imposizioni dall'alto e decidere dal basso gli artisti da supportare, ma solo a condizione di aver già acquisito la forma mentis adatta per farlo.

Nel prossimo articolo mi concentrerò sul perché nell'ambito della musica pop sia maggiormente diffusa la falsa equazione fra successo e qualità e su come questa abbia contribuito all'abbassamento degli standard del genere.