Evanescence – The Open Door

Evanescence – The Open Door
- Voto: 87 su 100
- Anno: 2011
- Genere: Alternative rock, Gothic rock
- Influenze principali: Symphonic rock, Art pop, Nu metal
The Open Door nasce in un periodo molto delicato per gli Evanescence. Ben Moody, chitarrista, co-fondatore e co-autore, aveva lasciato la band in maniera pubblica e piuttosto controversa già tre anni prima, a metà del tour mondiale. David Hodges, tastierista e altro co-autore, se n’era andato silenziosamente addirittura prima della pubblicazione di Fallen. La critica musicale aspettava al varco Amy Lee, co-autrice e cantante, col sospetto che fosse solo la bella voce e il viso carino che veicolavano la creatività di Ben Moody. E Fallen aveva venduto già all’epoca quindici milioni di copie, un successo che sollevava molte aspettative per il suo successore.
Fortunatamente, Amy è riuscita a trarre forza dalla situazione e The Open Door ha giovato sia del suo massimo impegno per dimostrarsi un’autrice di spessore, sia della relativa libertà creativa che l’enorme successo commerciale di Fallen le ha concesso nei confronti della Wind-Up. Scoperto inaspettatamente un nuovo perfetto partner creativo in Terry Balsamo, il chitarrista che aveva sostituito Ben Moody in tour, Amy ha trovato il coraggio di esprimere le sue idee, puntare i piedi per farle rispettare dalla label e tirare fuori un disco come voleva lei.
A posteriori, non sorprende che The Open Door abbia venduto circa un terzo delle copie di Fallen: pur entro certi limiti, è un disco che corre rischi, sfida gli stereotipi del rock commerciale americano, flirta con, ma continua sostanzialmente a infischiarsene di, quelli del metal a voce femminile europeo (e all’epoca erano molto rigidi), e si prende perfino lo spazio per sperimentare un po’. È un album in cui Amy ha voluto curare al massimo il lato artistico spesso a discapito di quello commerciale e il risultato è davvero notevole: la parte rock è più pesante che in Fallen; pianoforte e archi sono molto più ambiziosi che in passato; le linee vocali sono più dinamiche, impegnative e mettono alla prova tutta l’estensione vocale di Amy; i dettagli sono estremamente curati, con una profusione di armonie vocali, sprazzi di elettronica e campionamenti che arricchiscono le canzoni. Il tutto ben calibrato per dare un senso di sfarzo e ricercatezza senza (per lo più) strafare.

Call Me When You’re Sober”, il singolo di lancio, è un ottimo esempio di come Amy abbia voluto fare le cose a modo suo: è una canzone che, a una melodia estremamente catchy, unisce un arrangiamento molto stratificato, ricco sia nella parte rock, con ottimi riff di chitarra e un ritmo incalzante, sia in quella classicheggiante, con una profusione di archi, pianoforte e armonie vocali. È un ottimo singolo, radio-friendly quanto basta ma dalla texture ricca che gli assicura longevità oltre qualche passaggio in radio.

Molto buoni anche gli episodi hard rock. “Sweet Sacrifice” apre in bellezza il disco con distorsioni sia sulle chitarre che sulla voce, prima di esplodere in un trionfo di riff su una melodia pungente che sottolinea l’ironia del testo. Anche qui, sono molte le tracce vocali che si sovrappongono, come ad esempio i vocalizzi di Amy che fanno da sfondo a un sussurro filtrato sul bridge, o gli arrangiamenti armonici delle linee vocali principali che vanno oltre il solito accordo di terza. E se “Weight Of The World” ha una melodia un po’ insipida, recupera alla grande con riff di chitarra ispirati, una batteria dinamica e piccoli tocchi interessanti: il cupo carillon che sottolinea le linee vocali nelle strofe, i filtri che danno spessore alle note basse di Amy, il vocalizzo in sovracuto che, prima degli ultimi ritornelli, dà i brividi (in studio… live è un altro discorso, purtroppo).
Notevole è “Cloud Nine”, che si apre su spettrali vocalizzi in accordo di ottava che sostengono una linea vocale filtrata e una bella linea di basso, in un crescendo che prelude all’arrivo dei riff di chitarra. Di nuovo, nei ritornelli le tracce vocali si sovrappongono e incrociano, ora armonizzandosi, ora divergendo completamente, fino al bel bridge impreziosito dal pianoforte. “All That I’m Living For”, co-scritta dal secondo chitarrista John LeCompt, ha un ritmo ipnotico ed è trainata dalle chitarre, sia elettriche che acustiche, ma non senza una discreta presenza di archi e pianoforte: è un ottimo esempio del sound caratteristico della band.
Stranamente per gli Evanescence, l’album perde qualche colpo nei lenti. La power ballad “Like You” è strumentalmente interessante ma un po’ esagerata nell’interpretazione vocale, nel mood generale e, soprattutto, nel testo. Come “Hello” su Fallen, è dedicata alla prematura scomparsa della sorellina di Amy, ma non ha dalla sua il minimalismo intimo di melodia e arrangiamento o la genuinità quasi infantile del testo della precedente: il risultato è posticcio e un po’ melenso. “Good Enough” è l’unico episodio interamente acustico dell’album, affidato a pianoforte, archi e voce. Sebbene l’intro sia interessante, la melodia zuccherina non convince e, in cinque minuti e mezzo, ha tutto il tempo per diventare stucchevole. È apprezzabile il tentativo di Amy di variare un po’ scrivendo una canzone – gasp! – felice ma, messa in conclusione dell’album, stona ancora di più nel contesto.
Fortunatamente, l’altra power ballad, “Lithium”, compensa abbondantemente: trainata dal pianoforte ma arricchita da chitarre distorte e batteria, vede un’ottima interpretazione vocale di Amy, bilanciata ad arte per creare un episodio emozionante senza strafare come in “Like You”: merita appieno un posto accanto a episodi iconici come “My Immortal” e “Missing”.

Il vero punto di forza sono però le canzoni più sperimentali e quelle in cui le influenze classiche sono più prominenti. “Snow White Queen” è costruita intorno a un sample da “Ratfinks, Suicide Tanks and Cannibal Girls” di White Zombie (lo stesso usato su “Even In Death” di Origin, ma rallentato) con percussioni campionate e trasformate in una specie di beat, dissonanze e suoni cupi. La parola d’ordine è atmosfera: è una canzone lenta, la cui tensione cresce lentamente e può spiazzare ai primi ascolti, ma quando raggiunge il pay off dal bridge in poi diventa travolgente. “Lacrymosa” (la Y sta per la Catocala Lacrymosa, una falena nonché elemento visuale ricorrente dell’album) è una rivisitazione della “Lacrimosa” dal Requiem in Re Minore di Mozart. Non si tratta però di una cover, quanto di una canzone nuova costruita sui primi versi del brano classico e rivela qualche piccola sorpresa: la prominenza della linea di basso, un cambio di tempo sul bridge e una linea vocale completamente nuova di Amy, che si intreccia ai cori del brano originale. È un bel tributo all’autore, ma ha un’identità propria, completamente diversa, fra l’altro, dalla demo mai pubblicata “Anything For You” (circa 2002), il cui pre-ritornello è un po’ l’embrione di “Lacrymosa” ma porta l’esperimento in tutt’altra direzione.

Anche “Lose Control” non è molto convenzionale e fa dell’atmosfera il suo punto forte: si sviluppa intorno a un arpeggio di piano che viene ripreso dalle chitarre elettriche dopo ogni ritornello e, fra versi parlati e filtri su lead vocals insolitamente minimaliste, punta il riflettore sui vocalizzi stratificati e armonizzati di Amy che, assieme al ritmo accattivante, accentuano la sensualità della canzone. Quest’atmosfera continua nella canzone successiva, l’ottima “The Only One”, il cui incedere sensuale è accentuato dalla batteria, dal basso e dalle ottime backing vocals. Chitarre dal sapore nu metal, pianoforte e archi sostengono un’ispirata performance vocale di Amy rendendo la canzone particolarmente emozionante.
Un’altra delle highlight dell’album è “Your Star”, che massimizza alcuni degli elementi che hanno fatto la fortuna di Fallen: ottima melodia, una costante presenza di pianoforte, begli arrangiamenti d’archi, cori di sottofondo (un piccolo ensemble di voci femminili sui primi ritornelli, l’intero Millennium Choir dal bridge in poi) e aggiunge una bella parte di organetto qua e là. Questi elementi si fondono con una parte rock che arriva a sorpresa nel secondo verso e creano uno degli episodi più epici e di maggior impatto emotivo di tutto il disco.

Ottimi anche i testi: alla consueta vena malinconica con cui Amy affronta vari temi, dalle difficoltà di relazione (“Lithium”, “Cloud Nine”) al senso di solitudine (“Your Star”) fino alla ricerca di un’identità nel tessuto sociale (“The Only One”) e il processo artistico stesso (“All That I’m Living For”), si affianca un’inedita vena sarcastica e pungente nel tranciare rapporti morti in canzoni come “Sweet Sacrifice”, “Call Me When You’re Sober” e “Lacrymosa”, l’inaspettata sensualità di “Lose Control”, l’onestà nel parlare del peso della notorietà (le aspettative del pubblico in “Weight Of The World” e l’invasione della privacy in “Snow White Queen”). E se canzoni come “Like You” o “Good Enough” possono risultare melense, nel resto l’uso di figure retoriche e immagini metaforiche è dosato con gusto per trasmettere con classe il messaggio delle canzoni senza cadere nel mero esercizio di stile.

Nel complesso, The Open Door è un album a cui interessa poco accontentare del tutto qualcuno di specifico. A tratti è troppo pesante per il fan del pop medio, ma mai abbastanza per il metallaro coi paraocchi. Ha melodie abbastanza immediate da far storcere il naso agli snob, ma arrangiamenti troppo sofisticati per l’ascoltatore casuale. Non ha una nuova “Bring Me To Life” né una nuova “My Immortal”, ma ha momenti altrettanto interessanti. È pop, è heavy, è ricercato, è catchy, rinnova il sound rispetto a Fallen ma è 100% Evanescence – tutto insieme e nelle giuste dosi.

Infischiandosene di raggiungere un compromesso per gli altri, ne raggiunge uno interno che funziona molto bene. Chiamarlo un “album per intenditori” sarebbe forse pretenzioso ed esagerato, ma è un disco che guarda in molte direzioni e attinge al meglio, senza puntare al minimo comune denominatore. Le canzoni sono solide, varie, ben scritte e arrangiate, per un’esperienza d’ascolto che riserva ancora brividi e qualche sorpresa anche a distanza di undici anni dalla pubblicazione.


Alessandro Narciso